lunedì 18 giugno 2012

Professioni non regolamentate. Camera approva il ddl


Approvata dalla Camera dei Deputati la disciplina delle professioni non regolamentate o “non protette”, diffuse in particolare nel settore dei servizi, che non necessitano di alcuna iscrizione ad un ordine o ad collegio professionale per poter essere esercitate.
In particolare il testo unificato del disegno di legge definisce "professione non organizzata in ordini o collegi" l'attività economica, anche organizzata, volta alla prestazione di servizi o di opere a favore di terzi, esercitata abitualmente e prevalentemente mediante lavoro intellettuale, o comunque con il concorso di questo, con esclusione delle attività riservate per legge a soggetti iscritti in albi o elenchi ai sensi dell'articolo 2229 del Codice civile, e delle attività e dei mestieri artigianali, commerciali e di pubblico esercizio disciplinati da specifiche normative.
Si introduce il principio del libero esercizio della professione fondato sull’autonomia, sulle competenze e sull’indipendenza di giudizio intellettuale e tecnica del professionista.
Si consente inoltre al professionista di scegliere la forma in cui esercitare la propria professione riconoscendo l’esercizio di questa sia in forma individuale, che associata o societaria o nella forma di lavoro dipendente.
I professionisti possono costituire associazioni professionali (con natura privatistica, fondate su base volontaria e senza alcun vincolo di rappresentanza esclusiva) con il fine di valorizzare le competenze degli associati, diffondere tra essi il rispetto di regole deontologiche, favorendo la scelta e la tutela degli utenti nel rispetto delle regole sulla concorrenza.
Le associazioni possono costituire forme aggregative che rappresentano le associazioni aderenti, agiscono in piena indipendenza ed imparzialità e sono soggetti autonomi rispetto alle associazioni professionali che le compongono, con funzioni di promozione e qualificazione delle attività professionali che rappresentano, nonché di divulgazione delle informazioni e delle conoscenze ad esse connesse e di rappresentanza delle istanze comuni nelle sedi politiche e istituzionali.
(Altalex, 20 aprile 2012)

lunedì 24 maggio 2010

Un caso di disturbo oppositivo-provocatorio.

Il lavoro espone e sintetizza l'intervento psicoterapeutico di un bambino con un disturbo oppositivo-provocatorio.
Il lavoro con i genitori è stato pianificato in fase di osservazione e d'intervento secondo i parametri dell'Analisi Funzionale.
Gli obbiettivi terapeutici perseguiti con il bambino sono stati, invece, individuati seguendo il modello cognitivo-comportamentale della rabbia e del comportamento aggressivo proposto da Nelson e Finch (2000) e si sono focalizzati, almeno nella fase iniziale, sulla modificazione di specifiche distorsioni cognitive ("stile incolpatore lamentoso").
L'integrazione di strategie e tecniche cognitivo-comportamentali, all'interno di un setting multiplo, hanno permesso il raggiungimento di obbiettivi in termini di riduzione della frequanza del comportamento aggressivo e provocatorio del bambino.

Problema presentato
M. è un bambino di 8 anni. Il suo nucleo familiare è composto dalla mamma, dal padre e da una sorella
di 4 anni.
La coppia genitoriale chiede una consulenza per il persistere di alcuni comportamenti aggressivi di M.
all’interno del contesto familiare.
M. manifesta intense crisi aggressive in casa caratterizzate dalla rottura di qualsiasi oggetto presente
(bicchieri, vasi, telefono, vetri delle porte etc..) per poi passare all’aggressione fisica della mamma. Per
poter contenere fisicamente il bambino a volte la signora si trovava costretta a chiamare il marito, affinché
intervenisse in suo aiuto. Il bambino si calma solo quando, completamente disteso a terra, viene
Scoponi Monia
122
immobilizzato. Passato il momento, M. riprende tranquillamente a giocare o a terminare ciò che stava
facendo.
La sequenza comportamentale inizia sempre con delle richieste assurde di M.: volere stare in casa con
tutte le luci spente, avere i panni riscaldati, non voler fare il bagno (dopo giorni senza lavarsi), fare un
percorso in macchina per ritornare a casa da scuola (più lungo rispetto a quello abituale) o parcheggiare
l’auto dove voleva lui (anche quando il parcheggio era occupato da altre macchine).
A volte i genitori assecondano le richieste “assurde” per evitare che M. agisca la propria rabbia, altre
volte si rifiutano di farlo e si preparano a gestire i suoi acting out.
Queste crisi aggressive così intense sono iniziate in occasione dell’ennesimo controllo medico.
Nell’occasione i genitori ( la mamma) avevano parlato , per la prima volta in maniera esplicita, con M.
del suo disturbo epilettico, spigando in cosa consistevano le assenza semplici.
Il bambino apparentemente non aveva avuto particolari reazioni al momento della comunicazione e,
come sempre, molto diligentemente si era sottoposto alla routine di controlli ed esami.
Ma proprio dopo questo controllo medico preceduto dalla comunicazione circa il suo disturbo, M.
aveva intensificato la propria aggressività , aumentando progressivamente gli episodi di aggressività agita
( da un paio a settimana fino alla messa in atto tutti i giorni).
Informazioni anamnestiche
M. nasce senza difficoltà particolari. A 3 anni gli viene diagnosticato un tumore cerebrale per cui si
decide per un intervento chirurgico: purtroppo i medici non possono asportare la massa tumorale. Alla
famiglia viene prospettato solo la possibilità di monitorare l’evoluzione del quadro clinico e una terapia
farmacologia per l’epilessia ( assenze semplici).
M. è sottoposto a controlli ed esami medici con una frequenza mensile per i primi anni e gradualmente
controlli annuali. La terapia farmacologia antiepilettica viene mantenuta, con continui cambiamenti di
dosaggio e di tipo di farmaco, perché nessuna è mai riuscita a coprire le crisi epilettiche ( attualmente
l’unica soluzione definitiva proposta sembra essere un intervento chirurgico, altamente rischioso ).
M. sebbene ha diverse crisi epilettiche alla settimana, riesce a condurre una quotidianità assolutamente
normale. L’inserimento alla scuola materna ed elementare è stato sempre molto buono. M. negli
apprendimenti è stato sempre molto precoce ( a 5 anni sapeva gia leggere), ma ha avuto sempre delle
difficoltà di socializzazione. Preferisce sempre star da solo e con fatica si approccia a i coetanei. Se sono
gli altri ad avvicinarlo, non sempre è disponibile alla relazione.
Alle domande. M. risponde senza difficoltà al momento, ma poi tende ad isolarsi.
A scuola il bambino è prevalentemente oppositivo. Non rispetta nessuna regola: non rispetta l’orario
della merenda, non indossa il grembiule, si rifiuta di fare i compiti e di scrivere ( o fa il riassunto di quanto
dettato dall’insegnante o rappresenta il contenuto attraverso disegni), non esegue i compiti in classe.. Se le
Un caso di disturbo oppositivo-provocatorio
123
insegnanti si oppongono ai suoi comportamenti, M. diventa provocatorio: inizia a stendersi per terra e a
disegnare per fatti suoi, si rinchiude in uno stanzino e da li segue la lezione etc..Non ha mai agito la sua
aggressività ne verso gli oggetti ne verso i coetanei e/o insegnanti. Questo comportamento a scuola è
iniziato all’inizio della terza elementare, nei primi due anni di scuola M. ha sempre avuto un
comportamento congruo. Le insegnanti, pur lamentandosi, accettano il tutto, perché comunque M. alle
interrogazioni ( verbali) dimostra di apprendere.
Rispetto alla sua malattia ( l’epilessia, perché M. non sa di essere affetto anche da un tumore cerebrale)
M. attualmente ha iniziato a rifiutare di prendere i farmaci negli orari prestabiliti ( fa finta di prenderli),
mentre fino a questo momento aveva accettato senza problemi il tutto. Non chiede mai esplicitamente
delle sue condizioni di salute, ma la mamma riferisce che spesso lo trova a leggere ( nell’enciclopedia o su
Internet) argomenti inerenti il funzionamento del cervello, la definizione di epilessia. Se la mamma tenta
di affrontare direttamente l’argomento M. devia il discorso o prende e se ne va.
Trattamento psicoterapico
L’ipotesi diagnostica formulata è stata di disturbo oppostivo-provocatorio (DSMIV).
Si stabilisce con la famiglia il seguente contratto terapeutico: un incontro alla settimana per la coppia
genitoriale e 2 incontri mensili con il bambino. Si concorda di modificare la frequenza degli incontri con
i genitori, mano a mano che la gestione del comportamento- problema del bambino fosse stata possibile.
Fase di assesment
Con i genitori si effettuano 6 incontri di raccolta informazioni. Al termine dei quali si condivide la
comprensione del comportamento-problema secondo i parametri dell’Analisi Funzionale (vedi figura 1).
Sd C S+
? rottura di oggetti e assecondare le
aggressione fisica alla pretese del b.
alla mamma contenimento fisico
Figura 1. Ricostruzione del comportamento problema
In questa prima fase non è stato possibile individuare gli antecedenti, ovvero si individuavano
molteplici richieste assurde del bambino utilizzate come pretesti per attivare la sequenza
comportamentale descritta, ma nessun significato comune o funzionale era stato individuato.
In seguito a ciò, ho proposto ai genitori un intervento sulla relazione funzionale C S+, con lo
scopo di estinguere il comportamento problema ( o di ridurlo) sottraendo i rinforzi.
Con il bambino sono stati effettuati 4 incontri ( con cadenza settimanale), nei quali è stato impossibile
effettuare una valutazione testistica per l’esplicito rifiuto del bambino. M. veniva volentieri agli incontri,
ma voleva decidere lui cosa fare ( sceglieva di costruire con vario materiale mostri). A proposito dei suoi
Scoponi Monia
124
comportamenti, riferiva che era lui a comandare (“sono più forte dei miei genitori!”) e che non aveva
paura di nulla e di nessuno.
Concordo con il bambino di continuare a incontrarci per “conoscerci meglio”, allo scopo di instaurare
una relazione significativa funzionale alla comprensione del disagio del bambino, definendo però il
seguente setting: una attività in seduta la sceglieva lui, un’altra io. M. accetta.
Intervento con i genitori: scopi e strategia
Lo scopo dell’intervento con i genitori è stato quello di eliminare S+ ( rinforzo), perché sembrava
chiaro dalle sequenze descritte dai genitori che M. faceva del tutto per arrivare al contenimento fisico o
all’assecondamento delle proprie richieste e che dopo di questo la crisi si placava.
M. ha risposto al cambiamento di risposta ai suoi soliti comportamenti con un aumento significativo
dei suoi comportamenti aggressivi ( arrivando ad impugnare coltelli e a minacciare la mamma). Pur
avvertiti e messi al corrente che questa sarebbe stata la conseguenza immediata del cambiamento messo in
atto, i genitori hanno espresso la loro difficoltà a continuare il lavoro proposto perche timorosi che M.
nella sua escalation potesse realmente mettersi in pericolo o mettere in pericolo l’incolumità anche della
sorellina più piccola.
In seguito a ciò, preso atto delle difficoltà dei genitori e dei rischi ipotetici, con i genitori ho
reimpostato il lavoro cercando allora di andare a modificare la relazione funzionale Sd C. Dopo
un lungo periodo di osservazione del comportamenti del bambino ( attraverso una scheda di registrazione
e un diario giornaliero), cercando di individuare cosa era in relazione alle richieste assurde, ho
individuato la seguente sequenza comportamentale descritta nella figura 2.
Sd Sdc C S+
Qualunque evento o
pensiero che determinava
un’emozione negativa
( paura, frustrazione)
Pretesti o richieste
assurde
Acting out Contenimento fisico
Figura 1. Sequenza comportamentale
Concordo con i genitori di verbalizzare loro al posto del bambino le emozioni o i pensieri del
momento, appena M. iniziava a fare richieste assurde con il pretesto di attivare la sequenza
comportamentale abituale.
Come esempio si riporta una sequenza tipica:
- M: (inizia a fare una richiesta assurda appena rientra da scuola) Perché il volume della televisione è alto?!....non
voglio sentire rumori!!!
- Madre M. stai cercando dei pretesti per litigare, non è che per caso è successo qualcosa a scuola che ti ha fatto
arrabbiare? / M. che per caso ti è venuto il dubbio che oggi a scuola hai avuto un’assenza (crisi epilettica) e che i
Un caso di disturbo oppositivo-provocatorio
125
tuoi compagni se ne sono accorti e tu no ? / M. non è che per caso sei preoccupato perché tra una settimana
dobbiano andare a fare una RM all’ospedale?
- M: ……..( ascoltava e poi se ne andava).
Successivamente M. ha iniziato a rispondere alla mamma, descrivendo cosa era successo o cosa aveva
pensato in quel momento.
I comportamenti aggressivi del bambino sono gradualmente diminuiti: prima nell’intensità e durata ( M
iniziava a rompere gli oggetti, ma gradualmente si calmava) non necessitando più del contenimento fisico
dei genitori. Successivamente il bambino non attivava nessuna forma di acting out, limitandosi a fare una
richiesta assurda.
Questo tipo di intervento, sistematicamente applicato dalla mamma ( che in funzione di ciò aveva
deciso di prendere un mese di aspettativa dal lavoro) nel mese di applicazione aveva portato ad una
riduzione delle crisi, quantificabile: al massimo due volte alla settimana.
Nell’arco di tempo di 3 mesi tali crisi si ripresentavano in media 2/3 volte al mese.
L’esito di questo lavoro aveva prodotto i seguenti risultati:
• diminuzione significativa del comportamento aggressivo ( le crisi aggressive avevano una
frequenza non più giornaliera o settimanale, ma mensile, con lunghi periodi di completa assenza,
sopratutto durante il periodo estivo);
• diminuzione dei comportamenti “strani” del bambino: abbigliamento adeguato alla stagione, non
richiesta di riscaldare i panni prima di essere indossati, non mangiare più direttamente dalla
pentola, non rifiuto di lavarsi;
• la possibilità della famiglia di fare una vita sociale più stimolante ( andare spesso a cena al
ristorante, andare in vacanza) e comunque “normale” anche per la sorellina più piccola che poteva
così uscire più spesso;
• la possibilità di M. di frequentare alcune attività extra-scolastiche ( ginnastica artistica, campus
estivo);
• maggior desiderio del bambino di socializzare;
• andare al mare in costume ( il bambino negli ultimi 2 anni non era più andato al mare).
Intervento svolto con il bambino
Con il bambino gli incontri avevano lo scopo di instaurare una relazione significativa con un triplice
obbiettivo:
1. far rispettare a M. il setting terapeutico
2. aiutare il bambino a prendere consapevolezza della sua focalizzazione e attenzione ai segnali ostili
provenienti dagli altri, adulti o coetanei, che lo portava a percepire continue ingiustizie e ostilità
nei suoi confronti, che giustificavano il suo rancore o rabbia o rifiuto ad ubbidire. M. riferiva che
Scoponi Monia
126
erano i genitori che lo sgridavano o “gli salivano sopra “ facendogli male, che erano i compagni
che lo infastidiva, che erano le insegnanti che ingiustamente lo obbligavano a fare delle cose
“noiose.
3. poter lavorare con il bambino sulle emozioni/paure relative al suo stato di salute ( per quanto
riguarda l’epilessia), facendo in modo che esse potessero trovare un canale di espressione diretto,
attraverso la verbalizzazione e non solo attraverso i comportamenti agiti. Inoltre questo era
funzionale ad aumentare le competenze di mentalizzazione del bambino con lo scopo di sostituire
a C ( acting out) C' ( differenziazione emotiva).
Con il bambino è stato possibile solo poter condividere alcuni stai d’animo riferiti alla sua malattia, che
brevemente riporto qui di seguito.
• timore delle assenza semplici ( “tutti se ne possono accorgere meno che io..cosa mi può
succedere?”)
• timore di essere portato in giro dai compagni perché prende i farmaci per l’epilessia
• vergogna per avere l’epilessia ( rispetto ai coetenei)
• paura per il suo futuro ( “perché continuo a prendere i farmaci e non guarisco? Fino a quando li
devo prendere ?”).
Ogni tentativo diretto o indiretto ( attraverso storie, fumetti, gioco..) di lavorare su quanto inizialmente
deciso è stato rifiutato dal bambino. M. pur ascoltando le mie proposte ( per esempio lasciandomi
raccontare una storia) poi rimaneva in silenzio.
Interventi su altri setting
Il lavoro su questo caso clinico ha previsto oltre che un lavoro terapeutico con la famiglia ( genitori e
bambino), anche l’attivazione di più risorse :
1. colloqui con le insegnanti, per condividere la strategie comune di gestione delle provocazioni e
comportamenti oppositivi del bambino nel contesto classe
2. richiesta di consulenza specialistica ( neurologo) per i genitori, per avere informazioni sui possibili
effetti collaterali del tumore . E’ emerso che è ipotizzabile una componente organica per il
comportamenti impulsivo del bambino.
3. Richiesta ai genitori di effettuare una consulenza specialistica (Centro per l’Epilessia ) per
conoscere gli effetti collaterali della cura farmacologia , per discriminare quanto le difficoltà
scolastiche del bambino fossero imputabili alle variabili comportamentali e quanto imputabili alla
cura farmacologia. E’ stato confermato che la terapia farmacologia ha di per se come effetto
collaterale difficoltà di attenzione, maggiore affaticabilità ecc.., ma che nel caso di M. i danni
maggiori sono imputabili alla discontinuità con cui il bambino assume i farmaci.
Un caso di disturbo oppositivo-provocatorio
127
4. Richiesta al pediatra di fare diversi incontri con il bambino per informarlo della necessità di
prendere i farmaci ( questo è stato fatto durante il periodo in cui M. rifiutava la terapia
farmacologia)
5. Richiesta ai genitori di attivare il Servizio del Centro per l’Epilessia affinché prevedessero colloqui
con il bambino per spiegargli in cosa consisteva l’Epilessia e le assenze semplici ( questo è stato
fatto per evitare che tutte le informazioni sulla malattia il bambino le ricercasse per proprio conto o
che venissero date esclusivamente dalla mamma)
6. Richiesta al personale medico del reparto di Risonanza Magnetica di poter spiegare al bambino
l’esito dei suoi esami. ( questo è stato fatto per ridurre l’ansia del bambino circa il suo stato di
salute), visto che il dato clinico attualmente è positivo ( ipotetica riduzione della massa tumorale).
7. Attivare la famiglia affinché il bambino fosse seguito nei compiti da una insegnante esterna. Ciò è
stato richiesto sia per permettere al bambino di recuperare difficoltà specifiche, sia per evitare che il
momento dei compiti si trasformasse in continui pretesti per attivare la sequenza comportamentale
problematica ( perché il bambino faceva sempre i compiti con la mamma). E’ stato fatto un incontro
con l’educatrice per condividere la strategia comune di gestione dei comportamenti prov

token economy e adhd

TOKEN ECONOMY

Training di abilità sociali per il superamento dei comportamenti-problema in classe

Definizione operativa di comportamento-problema

I comportamenti degli alunni possono essere tutti ricondotti nella seguente ripartizione:

  • Comportamenti accettabili
  • Comportamenti non accettabili

I comportamenti non accettabili a loro volta possono essere suddivisi in:

  • Comportamenti non disturbanti, che non costituiscono un ostacolo al normale svolgersi della vita scolastica(come da esempio emarginarsi dal gruppo-classe).
  • Comportamenti disturbanti che ostacolano il processo d’insegnamento-apprendimento (come ad esempio manifestazioni d’aggressività verso i compagni, disturbo delle attività in classe, ecc.).

Questo ultimo tipo di comportamento problematico può essere controllato con l’uso di questa tecnica d’origine comportamentista, basata quindi solo sull’estinzione del comportamento, evitando di ricercarne le cause. Questa tecnica ha suscitato nel tempo molti entusiasmi per la sua facilità d’applicazione ed efficacia, ma nello stesso tempo molte critiche soprattutto d’origine etica.

Metodologia dell’intervento educativo

Alla base della T.E. vi è l’utilizzo di rinforzatori simbolici nella conduzione del gruppo-classe. Si utilizzano quindi gettoni, fiches o altro che, raccolti secondo un tipo di contratto stipulato con la classe, sono scambiati per ottenere un premio particolarmente gradito. Sono premiati i comportamenti positivi, non puniti quelli negativi, in modo da rinforzare il comportamento voluto.

La corretta attuazione di questa tecnica richiede il rispetto rigoroso della procedura d’applicazione:

  1. Devono essere chiaramente specificati i comportamenti da rinforzare mediante i token. I comportamenti scelti devono essere facilmente osservabili e quantificabili. Ad esempio, “l’essere buono” può avere diverse e soggettive interpretazioni; meglio quindi esplicitarlo in una serie di comportamenti osservabili, come lo stare in silenzio durante le spiegazioni, non picchiare i compagni, ecc. Vanno bene quindi comportamenti come il portare il materiale, eseguire i compiti assegnati, stare seduti durante le lezioni e così via.
  2. Scegliere un elenco di rinforzatori di sostegno (premi) realmente appetibili dagli alunni e variarli nel tempo.
  3. Stabilire un rapporto ottimale tra il numero di token e premi. Per risultare efficace, il premio deve essere acquisito con un numero di token proporzionale allo sforzo per ottenerli. Inoltre i comportamenti più difficili da ottenere devono avere come ricompensa in numero di token maggiore di quelli più facili da ottenere.
  4. I token devono essere facilmente manipolabili e conteggiabili. Ad esempio fiches, gettoni, timbri su una tessera, segni appositi su un tabellone, ecc.
  5. Definire i momenti in cui effettuare la conversione dei token nei premi. All’inizio è consigliabile che la conversione sia fatta frequentemente, per poi posticiparla nelle fasi successive.
  6. Molto importante è la registrazione sistematica dei comportamenti. Può essere utile un tabellone per registrare i comportamenti, in modo che sia visibile dall’intera classe.

Osservazioni operative

  • La T.E. deve avere una durata circoscritta e lasciare spazio a dinamiche meno artificiali in modo graduale
  • La T.E. è utilizzata nei casi in cui l’insegnante si trova a dover affrontare difficoltà non superabili con altri metodi più tradizionali e meno sofisticati.
  • La T.E. è concepita per rinforzare i comportamenti positivi mediante i suoi incentivi, anche se alcune volte è stata usata per estinguere comportamenti negativi, ma in quest’ultimo caso la sua efficacia è minore.
  • Il coinvolgimento delle famiglie è importante per la riuscita. Un incontro prima dell’inizio per spiegare la metodologia che s’impiegherà e per cercare la collaborazione anche in ambito familiare, uno alla fine per riportare i risultati, sono necessari.
  • La T.E. è costruita rigorosamente in ambito individuale, ma è bene prevedere accanto ai premi individuali, un premio collettivo per tutta la classe. In questo modo sono incentivati comportamenti d’aiuto e cooperativi all’interno del gruppo-classe.

Vincenzo Di Napoli

Criteri diagnostici del DDAI

La più recente descrizione del Disturbo da Deficit di Attenzione/Iperattività è contenuta nel DSM-IV (APA, 1994. Vedi tabella 1.1), secondo il quale, per poter porre diagnosi di DDAI, un bambino deve presentare almeno 6 sintomi per un minimo di sei mesi e in almeno due contesti; inoltre, è necessario che tali manifestazioni siano presenti prima dei 7 anni di età e soprattutto che compromettano il rendimento scolastico e/o sociale.
Se un soggetto presenta esclusivamente 6 dei 9 sintomi di disattenzione, viene posta diagnosi di DDAI - sottotipo disattento; se presenta esclusivamente 6 dei 9 sintomi di iperattività-impulsività, allora viene posta diagnosi di DDAI - sottotipo iperattivo-impulsivo; infine se il soggetto presenta entrambe le problematiche, allora si pone diagnosi diDDAI - sottotipo combinato.
I 18 sintomi presentati nel DSM-IV sono gli stessi contenuti nell’ICD-10 (OMS, 1992), l’unica differenza si ritrova nell’item (f) della categoria iperattività-impulsività (Parla eccessivamente) che, secondo l’OMS, è una manifestazione di impulsività e non di iperattività.
_______________________________________________________________________

A. Entrambi (1) o (2):

(1) sei (o più) dei seguenti sintomi di Disattenzione che persistano per almeno 6 mesi con un’intensità che provoca disadattamento e che contrasta con il livello di sviluppo:

Disattenzione

(a) spesso fallisce nel prestare attenzione ai dettagli o compie errori di inattenzione nei compiti a scuola, nel lavoro o in altre attività;

(b) spesso ha difficoltà nel sostenere l’attenzione nei compiti o in attività di gioco;

(c) spesso sembra non ascoltare quando gli si parla direttamente;

(d) spesso non segue completamente le istruzioni e incontra difficoltà nel terminare i compiti di scuola, lavori domestici o mansioni nel lavoro (non dovute a comportamento oppositivo o a difficoltà di comprensione);

(e) spesso ha difficoltà ad organizzare compiti o attività varie;

(f) spesso evita, prova avversione o è riluttante ad impegnarsi in compiti che richiedono sforzo mentale sostenuto (es. compiti a casa o a scuola);

(g) spesso perde materiale necessario per compiti o altre attività (es. giocattoli, compiti
assegnati, matite, libri, ecc.);

(h) spesso è facilmente distratto da stimoli esterni;

(i) spesso è sbadato nelle attività quotidiane.

(2) sei (o più) dei seguenti sintomi di Iperattività-Impulsività che persistono per almeno 6 mesi ad un grado che sia disadattivo e inappropriato secondo il livello di sviluppo:

Iperattività

(a) spesso muove le mani o i piedi o si agita nella seggiola;

(b) spesso si alza in classe o in altre situazioni dove ci si aspetta che rimanga seduto;

(c) spesso corre in giro o si arrampica eccessivamente in situazioni in cui non
è appropriato (in adolescenti e adulti può essere limitato ad una sensazione soggettiva di
irrequietezza);

(d) spesso ha difficoltà a giocare o ad impegnarsi in attività tranquille in modo quieto;

(e) è continuamente “in marcia” o agisce come se fosse “spinto da un motorino”;

(f) spesso parla eccessivamente;

Impulsività

(g) spesso “spara” delle risposte prima che venga completata la domanda;

(h) spesso ha difficoltà ad aspettare il proprio turno;

(i) spesso interrompe o si comporta in modo invadente verso gli altri (es. irrompe nei giochi o nelle conversazioni degli altri).

B. I sintomi iperattivi-impulsivi o di disattenzione che causano le difficoltà devono essere presenti prima dei 7 anni.

C. I problemi causati dai sintomi devono manifestarsi in almeno due contesti (es. a scuola [o al lavoro] e a casa).

D. Ci deve essere una chiara evidenza clinica di una significativa menomazione nel funzionamento sociale, scolastico o lavorativo.

E. I sintomi non si manifestano esclusivamente nel corso di un Disturbo Generalizzato dello Sviluppo, Schizofrenia o altri Disturbi Psicotici oppure che non siano meglio giustificati da altri disturbi mentali (es. Disturbi dell’Umore, Disturbi Ansiosi, Disturbi Dissociativi o Disturbi di Personalità).

Codice basato sui tipi:

314.01 Disturbo da Deficit Attentivo con Iperattività, Tipo Combinato: se il criterio A1 e A2 è stato riscontrato negli ultimi 6 mesi.

314.00 Disturbo da Deficit Attentivo con Iperattività, Tipo Disattento: se il criterio A1 ma non il criterio A2 è stato riscontrato negli ultimi 6 mesi.

314.01 Disturbo da Deficit Attentivo con Iperattività, Tipo Iperattivo-Impulsivo: se il criterio A2 ma non il Criterio A1 è stato incontrato negli ultimi 6 mesi.
_____________________________________________________________________
Tabella 1.1. Sintomi e criteri diagnostici secondo il DSM-IV (APA, 1994).

Sebbene siano stati compiuti notevoli progressi nelle descrizioni nosografiche del Disturbo, rimangono numerosi dubbi e perplessità sulla validità di tale diagnosi. In particolare, non è ancora chiaro se il sottotipo disattento sia veramente una manifestazione del DDAI, o se, invece, rappresenti un disturbo differente, oppure ancora sia la conseguenza di un disagio psicologico derivante da cause eterogenee. In secondo luogo, le ricerche non hanno ancora dimostrato se il sottotipo iperattivo-impulsivo sia separabile dal sottotipo combinato oppure rappresenti una fase precoce di sviluppo del medesimo disturbo che, in concomitanza con l’ingresso nella scuola elementare, assume la veste del sottotipo combinato (Barkley, 1997).

Come ripetuto più volte, l’etichetta Disturbo da Deficit di Attenzione/Iperattività deriva dalla descrizione diagnostica del DSM-IV pubblicato dall’Associazione degli Psichiatri Americani (APA, 1994), mentre quella di Sindrome Ipercinetica è descritta nell’ICD-10, pubblicato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS, 1992). L’ICD-10 distingue, all’interno della categoria Sindrome Ipercinetica, il Disturbo dell’Attività e dell’Attenzione e la Sindrome Ipercinetica della Condotta.
Per quanto riguarda il Disturbo dell’Attività e dell’Attenzione, i sintomi sono gli stessi del DSM-IV. Malgrado questa parziale sovrapposizione, le differenze tra i due manuali sono rilevanti. In particolare, la diagnosi di Disturbo dell’Attività e dell’Attenzione - DAA (ICD-10, 1992) viene posta solo se un bambino presenta almeno sei sintomi di disattenzione, tre di iperattività e uno di impulsività: in questo modo tale diagnosi è quasi sovrapponibile a quella di DDAI - sottotipo combinato descritta nel DSM-IV (APA, 1994). Da questa differenza ne consegue che l’incidenza del DAA e del DDAI sono radicalmente diverse: tra l’1% e il 2% il primo e tra il 3% e il 5% il secondo (Leung, 1996; Barkley, 1998).

Inoltre secondo il DSM-IV i sintomi devono essere presenti prima dei 7 anni di età, mentre secondo l’ICD-10 prima dei 6. Entrambi i manuali richiedono che il Disturbo sia pervasivo, cioè che si manifesti in almeno due contesti (ad esempio a casa o a scuola), e che comprometta in maniera significativa il funzionamento sociale e scolastico (o lavorativo).
La diagnosi di Sindrome Ipercinetica della Condotta dell’ICD-10 descrive quei casi che, oltre a presentare i sintomi del Disturbo dell’Attività e dell’Attenzione, manifestano anche comportamenti aggressivi e/o oppositivi/provocatori.
Queste differenze nei criteri diagnostici dei due manuali spiega la diversità nella frequenza di diagnosi dei disturbi da disattenzione/iperattività presente tra Nord-America e Europa: i primi infatti prediligono il sistema dell’APA i secondi quelli dell’OMS.

L’Italia non gode di una tradizione nell’uso di manuali nosografici (se non in quest’ultimo decennio), pertanto ci troviamo nella condizione di poter tenere conto di entrambe le descrizioni diagnostiche. Quella più omogenea, che probabilmente descrive un vero e proprio disturbo, è quella dell’ICD-10, sebbene sia opportuno tenere presente che esistono circa il 3% di bambini che presentano problematiche attentive, associate o meno a disturbi di apprendimento, di ansia o dell’umore che non trovano alcuna collocazione all’interno del manuale ICD-10 (OMS, 1992). Da ciò deriva il fatto che per essi non vengono attivate le necessarie procedure riabilitative di tipo cognitivo. Ci sembra opportuno sottolineare la necessità di tenere in considerazione la presenza di questi bambini che necessitano di un aiuto, tanto quanto quelli con iperattività/impulsività.

Cos'è l'ADHD


Il Disturbo da Deficit di Attenzione/Iperattività, o ADHD, è un disturbo evolutivo dell’autocontrollo. Esso include difficoltà di attenzione e concentrazione, di controllo degli impulsi e del livello di attività. Questi problemi derivano sostanzialmente dall’incapacità del bambino di regolare il proprio comportamento in funzione del trascorrere del tempo, degli obiettivi da raggiungere e delle richieste dell’ambiente. E’ bene precisare che l’ADHD non è una normale fase di crescita che ogni bambino deve superare, non è nemmeno il risultato di una disciplina educativa inefficace, e tanto meno non è un problema dovuto alla «cattiveria» del bambino.

L’ADHD è un vero problema, per l’individuo stesso, per la famiglia e per la scuola, e spesso rappresenta un ostacolo nel conseguimento degli obiettivi personali. E’ un problema che genera sconforto e stress nei genitori e negli insegnanti i quali si trovano impreparati nella gestione del comportamento del bambino.

Sicuramente i genitori sono abituati a vedere come le altre persone reagiscono al comportamento del bambino iperattivo: all’inizio, gli estranei tendono ad ignorare il comportamento irrequieto, le frequenti interruzioni durante i discorsi degli adulti e l’infrazione alle comuni regoli sociali. Di fronte alle ripetute manifestazioni dell’assenza di controllocomportamentale del bambino, queste persone tentano di porre loro stesse un freno all’eccessiva “esuberanza”, non riuscendoci, concludono che il bambino sia intenzionalmente maleducato e distruttivo. Forse i genitori sono anche abituati alle conclusioni a cui gli estranei giungono, come ad esempio: «I problemi di quel bambino sono dovuti al modo in cui è stato educato; sarebbe necessaria una maggiore disciplina, maggiori limitazioni e anche qualche bella punizione. I suoi genitori sono incapaci, incuranti, eccessivamente tolleranti e permissivi, e quel bambino è il frutto della loro inefficienza».

Leggendo queste poche righe, i genitori si renderanno conto che, se da un lato diventa necessario fare qualcosa per gestire il comportamento di questi bambini, è anche vero, d’altro canto, che diventa urgente far capire agli altri adulti quale sia la reale natura del problema dell’iperattività. E’ necessario che tutte le persone, che interagiscono con i bambini con ADHD, sappiamo vedere e capire le motivazioni delle manifestazioni comportamentali di questi ragazzini, mettendo da parte le assurde e ingiustificate spiegazioni volte ad accusare e ferire i loro genitori, già tanto preoccupati e stressati per questa situazione.

Innanzitutto è necessario scoprire se il bambino a cui state pensando, abbia veramente un Disturbo da Deficit di Attenzione/Iperattività (ADHD) oppure se sia semplicemente irrequieto e con la testa tra le nuvole. Nessuna persona, che non sia uno specialista (ad esempio, uno psicologo o un neuropsichiatra infantile), si deve sentire autorizzata a decidere se quel bambino presenta o meno un ADHD.

Qui di seguito e nel sito si possono trovare descrizioni del disturbo per fornire ai genitori e agli insegnanti una più chiara definizione del problema, per far capire quali sono i comportamenti che dovrebbero essere ridotti e quali invece possono essere considerati una semplice variabilità di temperamento del bambino.

tratto dal sito www.aidai.it

venerdì 7 maggio 2010

Il genogramma


Il genogramma è una specifica “versione” dell’albero genealogico utilizzato dai terapeuti familiari; può essere definito come la rappresentazione grafica della struttura di una famiglia accompagnata dalle verbalizzazioni che colui che compila il genogramma fa rispetto alle relazioni tra i soggetti rappresentati, alla comunicazione tra essi, alle somiglianze o differenze, ai miti o ai rituali che caratterizzano parti del sistema rappresentato (o il sistema intero). Alla semplice descrizione dei legami di parentela si aggiunge, dunque, l’analisi degli elementi relazionali, emotivi e affettivi. In base alla teoria di riferimento di chi utilizza questo strumento, in base dunque all’epistemologia in cui si inserisce questa tecnica, il genogramma può focalizzarsi su alcuni elementi piuttosto che su altri; tra i rami dell'albero pare celarsi il segreto o la spiegazione di un comportamento.

A questo proposito, può essere interessante riportare alcune riflessioni di Fritjof Capra (2001 ) che sottolineano l'importanza dello schema - dove per schema si intende una configurazione di relazioni caratteristiche di un particolare sistema -. Trattando dell'importanza dell'approccio sistemico egli sostiene che "la chiave per una teoria completa dei sistemi viventi sta nella sintesi […] tra lo studio della sostanza (o struttura) e lo studio della forma (o schema). Nello studio della struttura misuriamo e pesiamo le cose. Gli schemi, però, non possono essere misurati o pesati; bisogna darne una rappresentazione grafica. Per comprendere uno schema, dobbiamo disegnare una configurazione di relazioni". Così può essere percepita l'essenza del genogramma, come tensione verso la comprensione della vita che "comincia dalla comprensione del suo schema".

Introdotto nella terapia sistemica familiare da Murray Bowen , il genogramma si è diffuso poi alla quasi totalità degli indirizzi relazionali, con modalità differenti però di essere proposto, utilizzato e inserito nel contesto della terapia. Frequentemente il genogramma viene utilizzato anche per la formazione in gruppo degli allievi dei corsi per diventare psicoterapeuti familiari, come strumento di elaborazione della propria esperienza familiare; in questo caso la compilazione del genogramma si arricchisce con la retroazione dei colleghi e dei formatori che sono chiamati a fare domande al soggetto per comprendere al meglio la rappresentazione.

L’organizzazione del genogramma e l’uso che viene fatto in esso dei simboli permette sia a chi compila il genogramma, sia a chi osserva e ascolta, di far emergere la storia della famiglia e di evidenziare alcuni suoi schemi e modelli di funzionamento significativi.

Generalmente il genogramma include almeno tre generazioni e permette di delineare i legami biologici e legali/parentali tra le diverse generazioni. Nella pratica, nel genogramma si possono includere le generazioni che vengono considerate rilevanti in base al momento evolutivo della famiglia (o dell’individuo) che è in terapia, in base alle problematiche evidenziate, in base alle ipotesi formulate dal terapeuta e dal gruppo dietro lo specchio.
Un altro elemento da tenere in considerazione è la conoscenza della propria storia familiare di chi “compila” il genogramma. È significativamente diverso che un'informazione non venga indicata perché il soggetto non ne è a conoscenza oppure perché non viene considerata un dato importante, o ancora, se emerge essere un elemento indicibile della storia di quella famiglia.
Emerge quindi che i contenuti (informazioni) e la rappresentazione (organizzazione) del genogramma dipendono da una molteplicità di elementi legati sia al cliente che al terapeuta. Si può affermare che, durante una seduta terapeutica, sia che il genogramma sia fatto individualmente sia da più persone insieme, avviene una
co-costruzione nel contesto tra i soggetti presenti che porta ad un risultato finale non definibile a priori, influenzato anche dal momento in cui ci si trova rispetto alla seduta ed alla terapia, dal tipo di relazione e di comunicazione presente, dal setting,…

Gli elementi “tipici” del genogramma sono, a livello di informazioni presentate:

  • nomi, soprannomi, posizione parentale di ogni soggetto rappresentato;
  • date di nascita, di morte, eventuali gravi malattie, matrimoni, separazioni, divorzi, importanti “riti di passaggio”;
  • luogo di residenza e date di “spostamenti” / trasferimenti significativi;
  • frequenza dei contatti tra i soggetti;
  • intensità e tipo di relazione tra gli individui indicati nel genogramma;
  • rotture / separazioni emotive ed affettive;
  • etnia, occupazione, livello socio-economico, appartenenze religiose o di altro genere (se significative);
  • caratteristiche di salute e di personalità peculiari dei soggetti rappresentati.

La maggior parte di queste informazioni ha dei corrispettivi simboli standard usati per rappresentare in forma grafica “sintetica” i dati della famiglia. Esiste un livello di condivisione piuttosto ampia rispetto alla simbologia “di base” che, per altro, è la stessa che viene utilizzata nei comuni alberi genealogici.
Si parla di aspetti “tipici” benché, in realtà, non sempre si ritrovino nei genogrammi tutte queste informazioni; inoltre le finalità con cui viene proposto il genogramma possono essere varie e quindi possono portare a focalizzarsi più su alcune tipologie di dati che su altre. In altre parole esistono
molteplici usi del genogramma e il terapeuta deve essere consapevole di ciò; a questo proposito ci si deve interrogare su quali possano essere le diverse scelte, e quindi proposte, che un terapeuta fa rispetto all'utilizzo della simbologia standard, rispetto alla libertà espressiva da lasciare al soggetto, rispetto alle eventuali informazioni che ritiene necessario raccogliere, rispetto alla difficoltà di rappresentazione di determinate forme di legami non previsti dai simboli classici, rispetto alle diverse capacità e potenzialità dei diversi clienti, etc…. Riteniamo necessario sottolineare questo punto perché crediamo che, a fronte della massima flessibilità di questo strumento, sia importante un suo uso consapevole da parte del terapeuta, che deve stabilire di volta in volta il fine con cui utilizza il genogramma e di conseguenza proporlo nella modalità che ritiene più adeguata.
Oltre alle diverse scelte che il terapeuta prende di volta in volta, la pratica clinica ha portato all'evoluzione del genogramma in
nuove forme che mantengono aspetti comuni ma assumono diverse peculiarità per il tipo di informazioni indagate o per la modalità con cui viene proposto il lavoro: nei diversi ambiti applicativi si sono evidenziate le potenzialità di questo strumento maggiormente coerenti con i propri obiettivi, con la propria "utenza", con il contesto in cui si opera. Gli esempi più significativi sono quelli del sociogenogrammautilizzato nell'approccio della clinica della concertazione e dell'intervista geografico-storica utilizzata in casi di soggetti provenienti da circuiti di devianza ed emarginazione sociale oppure immigrati con un percorso di integrazione difficile.
Indipendentemente dall'uso che si fa del genogramma, la sua peculiarità rispetto all'albero genealogico o ad altre rappresentazioni schematiche di un nucleo familiare è quella di ricavare informazioni sulle distanze fisiche ed emotive tra le persone, ma anche sulla rete di aiuti e risorse interne ed esterne al nucleo; permette, inoltre di evidenziare nessi e relazioni tra i membri, esplorare le emozioni sottostanti, confrontare diversi punti di vista. Questi risultati possono essere favoriti sia stimolando le verbalizzazione durante la compilazione del genogramma, sia attraverso
domande e riflessioni che chi assiste fa, sempre mantenendo un atteggiamento di ascolto e di rispetto. Questo è un punto fondamentale in quanto ci sembra che rappresenti, oltre alla corretta modalità di svolgimento dell'attività, anche un "modello relazionale" positivo durante la seduta ed esportabile in altri contesti.


TEST PSICOLOGICI VARI


Ci sono 4 giovani uccellini su un ramo pronti a spiccare il loro primo volo.
3 di essi hanno finalmente deciso di spiccarlo!
Quanti uccellini rimangono sul ramo?

Qual è la risposta esatta ?


Bene, a questa domanda la maggior parte delle persone risponde 1!
Purtroppo, però, è la risposta sbagliata.

Sul ramo sono infatti rimasti sempre 4 uccellini perchè, in realtà, gli uccellini avevano solo DECISO di spiccare il volo, ma ancora non avevano AGITO.

Questo piccolo test ci aiuta a capire come le decisioni non bastino se non sono seguite dall'AZIONE.

TEST SULL'AMORE PER SE' STESSI

IN QUALE GIRONE DANTESCO DELL'AMORE TI TROVI ?

Inferno
Non sono stato amato e quindi non mi amo.
Ho bisogno d'amore ma ho paura d'amore. Vorrei essere amato ma ho paura di essere rifiutato un'altra volta. Non mi apro.
Non mi amo e quindi non riesco ad amare.
Vorrei amare, vorrei aprirmi ma ho paura di farlo, non sono capace di farlo, credo di non esserne in grado e allontano chi prova ad amarmi.
Non riesco ad amare e quindi non mi amano.
Non mi amano e quindi non mi amo… e il circolo continua.

Purgatorio
Non sono stato amato ma provo ad amarmi.
Provo ad amarmi e provo ad aprirmi.
Mi apro e vinco la paura del rifiuto.
Prendo fiducia in me e mi apro un altro po'.
Mi apro e vedo che non è così terrorizzante, che si può fare.
E anche se non sono stato amato provo ad amarmi…
e il circolo progredisce.

Paradiso
Mi amo perché sono stato amato.
Mi hanno fatto sentire importante e adesso lo sento anch'io.
Mi amo e sono amato.
Gli altri sentono la mia positività e il mio valore che anch'io sento. Così è facile per loro amarmi e aprirsi.
E anche per me è facile aprirmi e farmi amare.
Sono amato e mi amo.
E più intesso relazioni d'amore e più sento che sono capace d'amare, che sono una persona preziosa e importante…
e il circolo continua.»
(dal web)

Dott. Roberto Cavaliere